E’ estate, fa caldo: è tempo di accendere i climatizzatori, ma in Figc  restano sempre accesi i radiatori: l’aria non cambia, è sempre quella  greve e mefitica del 2006, quando si raccontava che una presunta cupola  tenesse sotto scacco il calcio italiano. E la cosa grave è che c’è chi  lo racconta ancora adesso, assieme, pensate un po’, alla favola truce di  Moggi che tiene rinchiuso sotto chiave in uno spogliatoio il povero  Paparesta, e a quella, non meno fantasiosa, delle sim svizzere non  intercettabili: anche Napoli, con tutti i suoi periti, è passata invano.  E dell’attualizzazione imposta dall’Alta Corte di Giustizia Sportiva  del Coni non vi è traccia, Palazzi è inesorabilmente fermo (come lo era  Narducci a Napoli, prima di trasferirsi in più spirabil aere) al 2006,  con le gravi colpe di Moggi, che non possono essere nemmeno prescritte,  più che altro non lo devono: infatti, parola del procuratore federale  Stefano Palazzi, “quei comportamenti non devono più capitare, e questa sentenza deve servire a dare memoria storica di quei fatti”.  Premesso che la memoria storica non può basarsi solo su un frammento  del complesso puzzle che il processo di Napoli ha messo davanti agli  occhi di tutti (e per merito esclusivo delle difese, perché i pm si  erano ben guardati dal gettare nemmeno un’occhiata per individuare il  benché minimo elemento in favore degli imputati, pur avendone  disponibilità), compito della giustizia è appunto far giustizia,  applicandone i principi, non lasciare memoria storica. E far giustizia  significa consentire all’imputato di difendersi efficacemente facendo  leva sui fatti; invece Palazzi ha fatto riferimento solo alle sentenze  rese: bene, allora, come ha detto Prioreschi “Inutile che noi veniamo qui a perdere tempo”; basta un copia-incolla della sentenza precedente e la chiudiamo lì: ma  dov’è la possibilità dell’imputato di difendersi portando a supporto  fatti reali, scoperti dopo le sentenze che si vogliono riformare,  soprattutto se queste risalgono a cinque anni prima e nel frattempo sono  usciti fatti nuovi che lo stesso Palazzi ha certificato come esistenti,  pur se prescritti? Eh già, per quelli l’orologio ha camminato, quello  usato per Moggi era rotto, purtroppo. 
“E’ un mostro giuridico e  ci auguriamo che prima o poi la giustizia ordinaria spazzi via questo  modo vergognoso di operare nel sistema sportivo”. Questa la  sconsolata e desolante conclusione di Prioreschi. A questo punto c’è  quasi da sperare che per ottener giustizia Moggi (dopo aver percorso  tutti i gradi di giudizio rimanenti, e cioè Alta Corte di Giustizia  Sportiva del Coni, Tar e Consiglio di Stato) debba arrivare a  Strasburgo, alla Corte Europea dei diritti dell’uomo: strada che Andrea  Galasso, legale di Antonio Giraudo, medita di percorrere da subito,  saltando tutto il resto. “Ormai mi sono convinto – sono le sue parole - che  la giustizia sportiva è una totale perdita di tempo. Aver respinto il  ricorso di Giraudo è contro l’ordinamento giuridico italiano ed europeo.  A questo punto la tentazione è saltare l’ultimo grado di giudizio della  giustizia sportiva e andare direttamente alla Corte Europea per i  Diritti dell’Uomo, la cui carta al punto sei parla proprio della durata  dei processi”. Già, l’art. 6, che parla di un termine ragionevole  per la durata dei processi e 59 mesi non lo sono di certo. Qualcuno  allora si renderà conto che nel paese che tanti secoli fa fu culla del  diritto ora vige, in alcuni settori, un modo di ‘amministrare’ la  giustizia che ne mina le basi tradizionali, in primis la più ampia  facoltà che deve esser data al presunto reo di difendersi, avvalendosi  di ogni possibile elemento a discolpa; e ciò viene perpetrato allo scopo  di dar memoria storica di alcuni fatti, quelli per i quali un orologio  si è fermato. Naturalmente tutto questo inficia pure la stessa memoria  storica tanto cara al procuratore Palazzi: perché la storia è contesto,  non pochi singoli fatti presi a caso (davvero?) da un mazzo. Qua non si  tratta nemmeno, come conclude Palazzi, di “affidarsi al grido di tutti colpevoli nessun colpevole, o di così fan tutti”; si tratta di ri-prendere in esame i fatti, valutarne la liceità o meno  alla luce delle disposizioni dell’epoca e del contesto in cui andavano a  inserirsi: che non era quello di una cupola che asfissiava il sistema  calcio in Italia, ma quello di un reticolo di rapporti alcuni leciti  (perché parlare con i designatori lo era), alcuni molto meno, anzi no  del tutto (avere stretti rapporti con un arbitro in attività, per  esempio). E di emettere sentenze con piena serenità di giudizio, solo  per far giustizia, anche rimediando ad errori che potevano essere stati  commessi, per ignoranza di alcuni fatti o per incuria, distratti come si  era dal mostro in prima pagina. Che faceva brodo.
Radiazioni: la Figc persevera. Si andrà a Strasburgo?
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